Chicco e Cereza – Le Donne del Caffè
La storia entusiasmante di una donna amazzonica e della sua cooperativa di produttori di caffè
La terra “megadiversa” della giovane Andrea
Un progetto unico e coraggioso, un esempio mosso da intenzioni preziose ma anche da lavoro concreto, all’insegna di consapevolezza, cooperazione e partecipazione
di Maria Cristina Latini
Ho conosciuto Andrea López in Italia, a Rimini, nel gennaio del 2019 in occasione di una fiera chiamata Sigep e abbiamo trascorso un pomeriggio insieme parlando di caffè. Andrea si è subito presentata come una persona spontanea, diretta, attenta e garbata. È stato molto interessante conoscere una “donna del caffè” che ha compiuto un percorso così particolare, perché a essere particolare e sorprendentemente “diversa” è, prima di tutto, la terra dove Andrea è nata: la Patanza, una delle province della regione amazzonica dell’Ecuador, un luogo conosciuto per la sua enorme diversità culturale e naturale.
Quando Andrea era molto piccola il suo papà insegnava in una comunità Waorani; per questa ragione lei e la sua famiglia vivevano lontani dalla città. Andrea mi ha raccontato che il suo papà provava molto rispetto, ammirazione e gratitudine per questa gente chiamata “Wao”, cosa che sin da piccola la avvicinò a queste persone. La cosa che ancora Andrea non sapeva è che questo legame avrà un ulteriore risvolto positivo quando sarà grande.
Ma ritorniamo a quando Andrea era ancora una bambina. La nostra piccola “donna del caffè” visse il resto della sua infanzia e gioventù nella proprietà di campagna del nonno. La famiglia coltivava caffè, cacao e altri prodotti necessari all’uso domestico…
Quindi hai avuto dimestichezza con il prodotto del caffè sin da bambina?
Sì, davo una mano durante la raccolta e mi piaceva assaggiare le ciliegie del caffè più rosse e succose, anche se per farlo dovevo schivare diversi insetti come vespe, formiche e pure ragni! Il caffè si produceva in casa, dalla pianta alla tazza.
Qual è il ricordo legato al caffè, più significativo di quel periodo?
Un’immagine di mia nonna con la sua amata tazza di caffè “súper aromática” e molto scura, una bevanda che per me era troppo forte e amara. Questo era il modo di consumare il caffè localmente, cosa che in alcune famiglie è rimasta. Ho anche questo ricordo di mio padre che insisteva affinchè io non bevessi caffè. Lui, come me, preferiva il cioccolato, che pure facevamo in casa.
Come percepivi allora il tuo avvenire?
In famiglia si promuoveva l’importanza di andare in città, di studiare per trovare un buon lavoro, lontano dalla campagna. I miei zii avevano ricordi molto duri a proposito della vita in Amazzonia, nei tempi in cui non c’erano strade, elettricità e neppure tante opportunità. Tenevo bene a mente il punto di vista della mia famiglia riguardo a me: studiare per non tornare più in campagna, nella povertà, nella parte dimenticata dell’Amazzonia.
E tu che ne pensavi?
Quando sono cresciuta, ho letto e sentito che l’Amazzonia era una regione molto ricca, variegata e interessante per gli stranieri; ho anche sentito che la mia provincia era la più diversificata, grande e complessa del Paese. Io mi domandavo dove fosse tutta questa meraviglia di cui si parlava, dove fosse questo luogo unico, “megadiverso”, ricco, importantissimo per il pianeta. Allora non ero in grado di trovare un collegamento fra la percezione che noi avevamo della nostra regione e ciò che ci veniva detto dal di fuori. A quell’epoca la gente di città “disprezzava” la gente di campagna e sono cresciuta arrivando a provare vergogna per le mie origini contadine.
Allora cosa hai fatto?
Quando arrivò il momento di andare all’Università, ero davvero molto emozionata. Ho sempre pensato che sarei potuta andarci e che sarebbe stato nella capitale del Paese. Ma non mi rendevo conto dell’enorme pressione che questo comportava per mio padre, visto che nella maggior parte dei casi, per un padre contadino non è possibile pagare l’università. Si è scoperto che giorni prima di finire il liceo, mio padre era venuto al corrente di un programma di borse di studio per giovani indigeni e agricoltori, nella migliore università del paese e anche la più costosa, l’Università di San Francisco de Quito. Per accedervi era importante la raccomandazione del popolo Waorani, che mi sostenne nel nome di mio padre.
Come hai vissuto il periodo universitario?
L’esperienza che mi ha trasformato più nella vita, accadde proprio in quell’università. Dall’esterno, con tutte le differenze sociali, culturali ed economiche, ho capito cosa significava essere un Amazzonica e un’amazzonica della zona rurale istruita (“educada”). Ho compreso a cosa si riferissero quando parlavano del luogo più “megadiverso” del pianeta, del luogo più ricco e più complesso e anche del più sfruttato del Paese. Studiando la storia ma anche le notizie, l’archeologia e l’antropologia, ho acquisito più consapevolezza. Ho imparato a godermi come mai prima il privilegio di definirmi una contadina, amazzonica, ecuadoriana. Mi sono innamorata della diversità, della complessità e delle potenzialità della regione amazzonica.
E dopo aver portato a termine i tuoi studi, cosa hai deciso di fare?
Sono uscita dall’Università, più che con il titolo di “Financiera” (studi in campo economico-finanziario ndr), con un enorme desiderio di ritornare in Amazzonia e di lavorare per costruire un posto migliore per i contadini amazzonici. Ho lavorato per alcuni anni mettendo insieme finanza e archeologia amazzonica. Ho riflettuto sull’importanza di avere archeologi amazzonici, perché non ce ne sono. E dovunque andassi, mi rendevo conto che abbiamo bisogno di così tanti professionisti in tanti settori, di tanti imprenditori che amano la loro terra, le loro radici e i loro sogni. Ma ai miei occhi, il mio percorso da compiere non era ancora chiaro. Sapevo solo che avevo bisogno di saperne di più sulla regione ed è stato così che ho intrapreso un lungo e affascinante viaggio lungo tutto il fiume Napo, un fiume che attraversa l’Amazzonia settentrionale dell’Ecuador fino all’Amazzonia in Perù.
Cosa hai imparato da questo viaggio nella tua terra?
Ho imparato a conoscere i popoli di oggi e del passato, la forza e la fragilità dei confini immaginari, l’importanza e il rispetto dei fiumi, il silenzio e le grida delle persone e della giungla.
E dopo che è successo?
Era il 2017 e ho deciso di ritornare in Amazzonia, in campagna. Con il mio amico Fabio, che oggi è mio marito, abbiamo iniziato a sperimentare la commercializzazione di caffè, cacao e mais. Nella nostra prima impresa abbiamo investito i nostri risparmi con un altro partner, ma abbiamo perso tutto il capitale.
Vi siete scoraggiati?
Subito Fabio, che è più “coraggioso” di me, mi ha spinto a iniziare un’altra avventura, nel mondo del caffè, che abbiamo chiamato Witoca. “Wito” è un frutto amazzonico con il quale molti popoli dell’Amazzonia si truccano il viso e il corpo in occasione di eventi speciali, attraverso questo trucco le persone esprimono messaggi sulla loro identità. E poi aggiungemmo “ca” in riferimento a “Compañía Anónima”, un termine usato in Ecuador per una grande azienda. Anche se la sua famiglia aveva una lunga tradizione di produzione e consumo di caffè, da alcune generazioni, abbiamo iniziato davvero da zero. Infatti, dopo molte ricerche e corsi di formazione, ci siamo resi conto che non sapevamo nulla su come preparare o consumare un buon caffè.
Iniziammo così a tostare chicchi di caffè di bassa qualità e nel modo più tradizionale e artigianale, con il fuoco acceso con la legna e in pentole (di fango). Impiegavamo più di un’ora per ogni “tostata”. I nostri vicini e la nostra famiglia ci incoraggiavano a continuare con la produzione poiché gradivano il nostro caffè. Subito però io, non essendo soddisfatta della bevanda ottenuta (pur da non consumatrice della stessa), ho iniziato a fare delle ricerche sulla lavorazione e sulla qualità del caffè.
Mi sembra di capire che più hai approfondito le tue conoscenze e più ti sei “innamorata” del caffè? Che cosa hai scoperto?
Sì, è così! Ho scoperto un mondo molto ampio, complesso ed emozionante. E volevo che arrivassimo a sfruttare la più grande potenzialità del caffè amazzonico, producendo un caffè della migliore qualità. Così, ci siamo proposti come missione quella di ispirare l’amore per l’Amazzonia, attraverso prodotti in grado di “aumentare” i sensi e di raccontare e condividere le storie del popolo amazzonico. Questa visione ci ha spinti a dare il meglio e a mettere il massimo sforzo in tutti gli aspetti del nostro lavoro.
È stata dura?
Avevamo risorse molto limitate. Non avevamo internet, né libri sul caffè, né esperti di caffè nelle vicinanze. Nonostante ciò, abbiamo cercato di documentarci attraverso svariate ore di lettura negli “internet point”, a volte gratuiti, a volte a pagamento, nei centri abitati vicini. Poi abbiamo incontrato persone che stavano lavorando allo sviluppo del settore del caffè, cosicchè abbiamo potuto partecipare a seminari di assaggio. Piano piano, con il tempo e le vendite, siamo riusciti ad ottenere un prodotto sempre migliore. Ed è stato così che abbiamo iniziato a vendere di più e a quel punto avevamo carenza di caffè, di persone e di idee. Abbiamo discusso molto sul fatto di associarci, ma la paura ci frenava perché non avevamo alcun termine di paragone con associazioni simili, che avessero avuto esito positivo, o almeno non ne eravamo a conoscenza nella regione.
C’è stata una svolta?
Nell’aprile 2018, abbiamo preso in considerazione e deciso di invitare i nostri principali fornitori di caffè, metà dei quali sono indigeni Kichwa, a lavorare per il nostro progetto. Fu allora che nacque un nuovo Witoca, con la filosofia del lavoro di squadra, che si ispira allo spirito di comunità. I nostri valori principali sono il rispetto per le persone e per il rispetto per l’ambiente, lavoro di squadra, interculturalità, crescita personale e consumo responsabile.
É un progetto che guarda molto lontano, dove le parole “cooperazione” e “partecipazione” mi sembrano parole chiave?
Sì, spero sempre di riuscire a cooperare con tutte le persone con cui lavoro stimolando in loro il rispetto, il lavoro di squadra, la comunicazione e l’ascolto, tenendo conto della diversità culturale. Ora abbiamo più cose da perdere ma più motivazione e fiducia per continuare a migliorare. Ci sentiamo molto fortunati per il fatto di poter condividere il nostro amore per l’Amazzonia attraverso il caffè e ringraziamo tutti coloro che, in tutto il mondo, sostengono e contribuiscono alla realizzazione di questo sogno.
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Spazio del lettore:
“Una favola di caffè: Chicco e Cereza”
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