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Una riflessione su caffè, cibo, cultura e femminilità con l’antropologo Ernesto Di Renzo
La facoltà tutta femminile di nutrire sia nel grembo e sia fuori dal grembo nelle prime fasi della vita dell’uomo…questo nesso così intimo, così universale, così insostituibile non può passare indenne ai processi psichici e culturali
di Maria Cristina Latini
Ernesto Di Renzo è antropologo all’Università di Roma Tor Vergata, dove insegna “Antropologia del turismo”, “Antropologia dei patrimoni culturali e gastronomici” e “Antropologia del gusto”. Nella breve intervista che segue, spaziando fra i temi di caffè, alimentazione, cultura e femminilità, ho domandato a Ernesto Di Renzo di condividere una sua riflessione su questi contenuti, anche da una prospettiva socio-antropologica.
Che importanza ricopre il caffè sia dal punto di vista personale, che da un punto di vista professionale per un esperto studioso antropologo come lei?
Da un punto di vista personale il caffè è per me qualcosa a cavallo tra la necessità e il piacere, soprattutto da quando, alcuni anni fa, ho imparato a berlo senza zucchero. Come tutte le cose che rientrano nella ritualità giornaliera e nelle cosiddette abitudini gustative, ci sono alcuni caffè che mi piacciono più di altri e che prendo con devota regolarità, ma in linea generale sono attratto da tutto ciò che è caffè. In questo senso, anche quando sono all’estero per motivi di lavoro, non disdegno mai i modi locali di fare il caffè, o le forme e i modi di prepararlo. Da un punto di vista antropologico per me il caffè rappresenta un esempio classico di come la cultura guidi l’uomo nella scelta delle sue azioni. Detto ancora meglio il caffè è qualcosa che si ricerca non soltanto perché serve, ma anche perché “dice”. E da questo punto di vista si inscrive a pieno nel campo della comunicazione. È una sostanza colturale che l’uomo ha trasformato in situazione culturale, lasciandosi plasmare ovunque nei modi, nei tempi e nelle occasioni di consumo. Una plasmazione, va da sé, che non ammette un modo migliore o peggiore di concepirla o essere realizzata: ognuna ha le sue ragioni, le sue modalità, le sue coordinate gustative.
Quanto è radicato e importante il rapporto fra il cibo e le donne secondo la sua esperienza di studioso?
Se prescindiamo dai modi in cui la moderna tecnologia opera nello spersonalizzare il rapporto tra il cibo e chi lo produce, possiamo sostenere che il cibo ha sempre avuto una componente intrinsecamente femminile. E se questo non riguarda tutti i casi e le modalità di produzione, penso ad esempio alla caccia o alle pratiche di allevamento, riguarda certamente la gran parte dei casi e delle modalità connesse alla trasformazione, alla preparazione e alla dispensazione. Del resto, l’immagine della donna nutrice è radicata in tutti i simbolismi religiosi e magici che accompagnano la storia dell’uomo. Un’immagine che si fonda sulla facoltà tutta femminile di nutrire sia nel grembo e sia fuori dal grembo nelle prime fasi della vita dell’uomo. Questo nesso così intimo, così universale, così insostituibile non può passare indenne ai processi psichici e culturali. E non è un caso, in questo senso, se la maggior parte delle divinità o delle figure mitologiche connesse alla sfera dell’alimentazione siano di sesso femminile: penso alla greca Demetra, alla romana Cerere, alla italica Pomona, alla Giapponese Inari, all’azteca Centeotl e via discorrendo.
Infine che relazione può individuare fra la femminilità e la dispensazione della cultura?
Ovunque, nel tempo e nello spazio, il ruolo tra la femminilità e la dispensazione della cultura ha avuto nessi molto stretti e ricorrenti. Almeno fino a che la cultura, con le società a potere centralizzato, la cultura stessa non è diventata un complemento del potere stesso: sia in termini di appannaggio, sia in termini di modalità dell’acquisizione. Ma se il potere ha sempre ritenuto di dover gestire al maschile quegli aspetti della cultura per così dire ufficiali, tutte le altre forme della cultura, quelle cioè non rinvianti al concetto di erudizione in senso scolastico, sono state sempre e ovunque demandate alla donna. Fin dal primo concepimento, in fin dei conti, è la mamma che ci insegna a parlare, dischiudendoci così le porte alla cultura, alla comunicazione, alla socialità e, se vogliamo, all’essere uomini.
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“Una favola di caffè: Chicco e Cereza”
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